FREDDIE ROACH, un’icona per la boxe: i suoi 60 anni dentro e fuori dal ring

Buona parte di essi li ha trascorsi dentro e fuori dal ring, che è divenuto parte della sua vita, elemento fondante di ciò che è oggi, nel bene e nel male.

Roach è un’istituzione della boxe mondiale, un affermato trainer, mentore di numerosi pugili di successo, ma soprattutto è un personaggio la cui voce risuona sempre con autorevolezza nel mondo pugilistico.

Uno dei sette figli di Paul Roach, pugile professionista di origini irlandesi e padre violento, Freddie cresce imparando presto a sopportare il dolore, fisico e mentale: “Se facevamo qualcosa di sbagliato, ci picchiava. Mio padre era un tipo molto fisico. E se non era uno di noi [ad essere pestato, nrd.], toccava a mia madre”.

Trascorre i primi anni di vita in un sobborgo di Dedham, Massachussets, dove fu coinvolto in centinaia di combattimenti da strada, secondo lo stesso Roach circa 300.

Fu il padre a spingerlo verso la boxe e ad allenarlo, assieme ai cinque fratelli, nessuno escluso. Da dilettante Freddy ottenne ottimi risultati e così passò professionista nel 1978, divenendo campione dei pesi piuma del New England un anno dopo, proprio come il padre 32 anni prima. Noto per la capacità di incassare e resistere ai colpi, Freddie appese i guantoni al chiodo all’età di 26 anni, con un record di 40 vittorie, di cui 15 per KO, e 13 sconfitte.

Aveva cominciato la carriera con un record iniziale di 26-1. Ma in un match contro Mario Chavez, valevole per una chance titolata, finì per fratturarsi la mano destra dopo averlo colpito con un gancio. Vinse l’incontro, ma dovette rinunciare alla sfida per il titolo. Il bilancio successivo fu di 13-12. La mano non guarì mai del tutto.

Ben prima di decidere per il ritiro Eddie Futch, all’epoca sua guida tecnica, gli aveva chiesto di fermarsi, intuendo che qualcosa non andava. Roach però non lo ascoltò e su consiglio del padre proseguì a combattere, finendo per perdere cinque degli ultimi sei incontri, aggravando ulteriormente le sue condizioni fisiche.

Nel 1990 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson, ma non fu certo una sorpresa. I primi segnali li aveva avuto molti anni prima, tra le 16 corde.

Nel 1992 il padre morì, all’età di 62 anni, a causa dell’Alzheimer. Un anno prima Freddie gli aveva telefonato, mentre era ricoverato in una casa di cura: “Lo hanno portato al telefono e gli ho detto che ero Freddie, suo figlio. Ma lui semplicemente mi ha risposto che non ricordava di aver alcun figlio, e ha riattaccato”.

Abbandonò per breve tempo il mondo del pugilato, quasi per rigetto, finendo a lavorare per un’azienda di telemarketing. Ma non faceva per lui, e tornò ben presto sui suoi passi.

Seguendo le orme di Eddie Futch, Roach è divenuto un’icona e un’autorità in ambito pugilistico, tanto da essere ingaggiato anche da alcune superstar delle MMA. È stato eletto per 7 volte trainer dell’anno ed ha allenato, tra i tanti, Oscar De La Hoya, Jorge Linares, Amir Khan, Miguel Cotto – letteralmente rinato sotto di lui – e, seppur per brevi parentesi, anche Mike TysonGuillermo RigondeauxWladimir Klitschko e Tyson Fury [gli ultimi due come secondo, ndr.]. Ma più di ogni altra cosa, Freddie è guida e mentore di Manny Pacquiao.

Roach è noto per le sue dichiarazioni spesso poco diplomatiche, come quando da secondo criticò apertamente Ben Davisonhead coach di Tyson Fury, per la condotta troppo passiva del Gypsy King nel primo match con Deontay Wilder. O come quando disse a Shawn Porter, con poco tatto e in un eccesso di franchezza, che Spence lo avrebbe “ucciso” sul ring [per altro, sbagliando completamente pronostico, ndr.]. È abituato ad affrontare le circostanze che gli si parano davanti senza filtri, e come tale si rapporta agli altri, a volte in modo eccessivamente onesto, finendo per attirare qualche critica.

La boxe gli ha dato tanto e tanto gli ha tolto. Gli ha donato fama, soldi, successo ma anche quel tremore che col tempo ha imparato a dominare, tanto da cancellarne le manifestazioni. Nonostante tutto, il Parkinson non è riuscito a togliergli il sorriso e l’autorevolezza, quel piglio deciso e sicuro che caratterizza da sempre i suoi modi.

Secondo i medici, la routine da allenatore con i suoi pugili, il costante esercizio e il lavoro di coordinazione tra occhi e mani potrebbero aver rallentato di molto il decorso della malattia.

Roach non rinnega nulla della sua vita, tanto meno della sua attuale vita: “Alcune persone mi guardano e si sentono dispiaciute per me e io non riesco a capirlo. Amo la mia vita”.

Alessandro Preite